Il destino di Farrokh

.

.

Bomi sfreccia sulla sua bici nera lungo strada che porta all’oceano. La terra sta finendo di liberarsi dall’acqua del monsone e da qualche giorno si può arrivare fino alla spiaggia senza dover guadare pozze grandi come laghi. Bomi ha un naso sottile e curvo come un becco, un naso che fende l’aria come una spada. Un naso Parsi. E subito a sud di quell’orgoglio, l’ombra appena accennata di un paio di baffi dei quali osserva i progressi giorno dopo giorno come il più scrupoloso degli scienziati. Bomi si sente grande e fiero e se anche non pensa di essere perfetto, di sicuro crede che la somma dei suoi difetti sia quantomeno un numero primo. Come ogni ragazzino sa benissimo che prima o poi farà qualcosa che tutto il mondo ricorderà. Ma a Bomi, al contrario di chi lo sta guardando ora, questo accadrà davvero. Solo che non se ne accorgerà subito e dopo non lo vorrà accettare. Per sua fortuna la vita gli regalerà anche chi lo aiuterà a capire.
Bomi pedala per le strade della città che ha lo stesso nome della sua famiglia, Bulsara e mentre sfreccia veloce rapito dai suoi pensieri, poco lontano da quella strada, un pianto acuto sta annunciando al mondo la nascita di Jer. Bomi perso sulla via dell’oceano e Jer persa nel cercare di capire cosa sia tutta quella luce, non lo sanno ancora ma i loro destini s’incontreranno presto. Jer avrà un sorriso di miele e, come ogni donna della sua gente, sembrerà portare sempre un arcobaleno nascosto in una tasca. Il sole sta scendendo e fra poco Bomi e Jer si godranno inconsapevoli il loro primo tramonto insieme, il tramonto di un giorno d’ottobre del 1922.
Di tutta la strada percorsa quel giorno da Bomi non rimane nulla, il vecchio bazar non ha lasciato tracce e le case sono state abbattute e ricostruite chissà quante volte. Di tutto ciò che Bomi può aver incrociato con lo sguardo è rimasto solo un elefante di pietra alla porta di un tempio su quella che oggi si chiama Mahatma Gandhi Road.

.

.

.

.

Nell’India rurale nulla è vecchio. Tutto è antico e immortale oppure nuovo e scadente, non c’è ricordo nè spazio per ciò che sta nel mezzo.
Quando si chiede ad Atul, barba bianca e occhi quasi sconfitti dalla cataratta, seduto tutto il giorno sull’uscio della sua bottega a scandire il tempo a sputi di betel, cosa c’era a Bulsar prima dell’indipendenza; lui inizia a guardarsi intorno, o forse a fingere di poterlo ancora fare, guarda il traffico e la gente che cammina fra le macchine, prende fiato gonfiando a fatica la sua tunica bianca come farebbe un vento debole con un lenzuolo steso e risponde: niente. Non c’era niente. Poi torna al suo amato silenzio. Di tutte le case che ora s’incontrano, poche hanno più di trent’anni e una manciata ne ha più di cento, anche se tutte sembrano averne almeno il doppio. Della vecchia Bulsar, oggi Valsad, rimane poco, si fatica a trovare anche solo un riferimento. Tutto pare coinvolto in un mutamento continuo che segue pari passo l’esplosione demografica e il vizio tutto indiano che prevede, quando si tratta di pianificazione urbana, di non ricorrere quasi mai a regole ma più che altro ad opinioni. Ciò su cui l’uomo non può mettere mano però è rimasto per fortuna immutato. C’è ancora la spiaggia che le maree continuano a cancellare e far riapparire, il mare in cui solo i bambini si tuffano e corrono. C’è ancora un posto, come c’era ai tempi di Bomi e Jer, poco lontano dalla città, in cui i pescatori abbandonano le barche che non riescono più a riparare. Appena possono i bambini cercano di fuggire fin là e, lontani dagli occhi degli adulti, mentre scompaiono caste e religioni, giocano a sentirsi grandi eroi o a combattere con mostri marini dentro ai quali si può camminare. Nel loro mondo di navi senza mare e balene di legno.

.

.

.

.

Vedi quel fuoco? Non si spegne mai. Nemmeno la notte, nemmeno quando tutti dormono. Jer inizia ad imparare i miti e le leggende della sua gente, che prega raccolta nel tempio e che vive la propria fede in modo quasi invisibile. Impara che i suoi avi, arrivati in India fuggendo dalla Persia, mai avrebbero immaginato di dover fare una promessa davanti ad una coppa piena di latte. Jadi Rana teneva quella coppa in mano come l’immagine del suo regno, non ci sarebbe stato spazio per altro latte e per nessun altro popolo. Ma uno tra di loro prese un pizzico di zucchero e lo fece cadere nella coppa. Lo zucchero si sciolse lasciando solo il suo sapore e il latte non traboccò. Quelli sarebbero stati i Parsi, zuccchero per l’India. E come quello si sarebbbero dissolti, avrebbero parlato la lingua e vestito gli abiti della gente de Gujarat. Ma nessuno, che ci veda almeno un po’, a quasi mille anni di distanza, può confondere una donna parsi con una indiana, e questo Jer lo sa benissimo. Soprattutto con l’età che avanza c’è una distanza che pare un’abisso tra quelle donne così sottili e distinte e le discendenti del Raja con i loro ventri grassi e molli ripiegati attorno ai sari come pantaloni di Jodhpur.
Bomi quelle storie le sa ormai a memoria, conosce le preghiere e i riti tramandati da millenni che ancora danno vigore al fuoco del tempio. Quel fuoco sacro che continua a bruciare e che non può toccare i loro corpi nemmeno dopo la morte, quando, come accade dalla notte dei tempi, i cadaveri sono esposti sulle torri del silenzio dove gli avvoltoi li privano della carne, nella più antica delle morti, la stessa toccata a Dario ed Artaserse.
Bomi sta diventando un uomo e le corse in bici verso l’oceano sono sempre più rare. Bomi vuole essere un uomo rispettato e onesto e, perchè no, benestante, come ogni Parsi dovrebbe essere, fregandosene di quando qualcuno, per un’eco arrivata non si sa in quale modo dall’Europa, ha chiamato la sua gente gli ebrei dell’India. Buoni pensieri, buone parole, buone opere. Il segreto è tutto lì. A portare il sorriso tra tutti quei propositi ci penserà una ragazzina con un arcobaleno nascosto in una tasca che affiancherà la sua vita a quella di Bomi per non allontanarsene mai. Bomi avrà una sposa alla quale nei momenti difficili affidare i propri pensieri e le proprie convinzioni con una matita rossa e blu. Una sposa conosciuta al tempio del fuoco tra i vicoli di Motaparsivad tra le gare di colori delle case.

.

.

.

.

Camminando per quel piccolo quartiere non si fatica molto ad incontrare qualche Parsi ancora oggi, a farsi offrire un tè e raccontare una storia. Basta uno scampolo di conversazione per capire come mai gl’inglesi ne abbiano fatto un gruppo privilegiato a cui affidare spesso gl’incarichi più importanti. Sono scaltri, rapidi di pensiero e con un amore mal celato per il non sense. Le loro risate sono le più occidentali che si possano trovare in India. Fermarsi a parlare e cercare di rubare qualche segreto. Difficile trovare qualcosa che assomigli di più ad una partita di backgammon giocata in medio oriente con un vecchietto che ti fa credere di vincere, poi ti batte in un paio di mosse e se la ride divertito con i suoi compagni di una vita. Ma ride senza cattiveria, ride anche con te e l’epilogo della partita sa un po’ meno di sconfitta.
Anche la promessa fatta a Jadi Rana è stata forse la mossa astuta di una partita di backgammon, parlare la lingua del Gujarat e vestire come gl’Hindu, bastava quello per perdere l’identità? I Parsi vivono seguendo le regole imposte tempo fa come fossero stati loro stessi a deciderle. Nessuno al di fuori della loro religione può entrare nel tempio del fuoco o avvicinarsi alle torri del silenzio, nessuno può essere convertito. Eppure quello che doveva relegarli in un ghetto e farli sparire è servito a non far perdere loro i lineamenti, le leggende, l’umorismo e l’orgoglio. Nelle mezz’ore passate a parlare in quelle verande sbiadite può davvero sembrare di essere lontani dall’India e dalla sua gente e di trovarsi in un luogo indefinito. Holmuz mi spiega che non è solo l’emigrazione a ridurre anno dopo anno il loro numero, i Parsi si sposano tardi e hanno pochi figli, per una regola non scritta che prevede di sposarsi quando si ha la sicurezza economica di poter mantenere la famiglia. La rinuncia al proselitismo, che li mantiene così distanti da monoteismi più famosi, continuamente a caccia di fedeli in ogni regione del mondo, ha fatto il resto.
La realtà di oggi è che questo quartiere, specchio della loro religione, è un secchio bucato che non riceve ormai quasi più acqua e che tra non molto si svuoterà. Qualcuno pensa che i Parsi siano destinati a scomparire entro la fine di questo secolo, così come, in uno strano destino comune, gli avvoltoi che volano attorno alle torri del silenzio aspettando i loro corpi, si stanno estinguendo. Quelle scale per le quali Bomi e Jer potevano correre ora sono sbiadite, pericolanti, senza vita. Destinate ad essere abbattute o resistere come traballanti disegni di Escher in mezzo a palazzine di cemento a tre piani prodotte in serie e sparse come semenza per l’India.

.

.

.

.

Sono passati gli anni e Bomi si è dimenticato di essere stato inghiottito da una balena di legno e di essere stato il capo dei pirati, di saper fendere l’aria con il naso e di essersi fermato a guardare lo zucchero scioglersi lentamente in una tazza di latte. Come molti Parsi lavora per gl’inglesi. Che abbia scelto di addolcire la coppa sbagliata? L’India si prepara a liberarsi del fardello del colonialismo, Bomi e Jer devono lasciare la loro città e il loro paese per seguire il lento ritirarsi dell’impero britannico. Lui con il suo lavoro al British Colony Office, lei col suo sorriso di miele. Come ogni uomo Bomi si accorge di un cambiamento epocale quando vi è già immerso fino alla cintola, come ogni donna Jer aveva capito tutto già da un pezzo. Avranno due figli, il primo si chiamerà Farrokh, nascerà a Zanzibar nel giorno del capodanno Parsi e crescerà lontano dalla città di cui porta il nome. Vi tornerà forse solo una volta con sua sorella Kashmira, e di quel giorno rimarrà una foto scattata vicino al fiume. Ma il destino ha in serbo ben altro per lui, qualcosa di più grande di una corsa in bici fino all’oceano o di una collezione di francobolli. E lo porterà così lontano dalla vecchia Bulsara che cambierà anche il suo nome.
Qualcuno un giorno ha detto con quei denti non sarebbe andato da nessuna parte.

.

.

.

.

.

.

Ma forse si è sbagliato….

.
Alla prossima

.

.

.

A Bomi e Jer

.

.

4 thoughts on “Il destino di Farrokh

  1. 🙂 Ho aspettato di avere un momento tranquillo e intimo per leggere, e l’attesa è stata ripagata! Grazie per queste immagini, per gli arcobaleni e le balene!
    Ciao Guido!

Lascia un commento