Indian breakfast tea

Questo primo post non sarà quello con la storia più commuovente o con le foto più belle ma non so davvero da dove iniziare se non da dove inizia la mia giornata. Il chai hotel di Ramesh.
Non è un hotel vero e proprio, qui chiamano così qualsiasi postaccio in cui si possa comprare cibo, fare colazione o, insistendo un po’, trovare un angolo in cui dormire. Il chai hotel di Ramesh è stato il primo luogo in cui non mi sono sentito uno straniero. Non è diverso dalle altre decine di chioschi o negozietti che s’incontrano per strada, tutti ugualmente improvvisati e sgraziati, tutti illuminati da una luce violenta che colpisce la facciata e fa apparire l’interno buio come la notte. Ramesh e Laxmi quella prima mattina indiana mi hanno sorriso invece di fissarmi come fossero allo zoo e quello è stato il primo decisivo passo della nostra strana amicizia.

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A dire la verità non è stato proprio solo il sorriso ad attirarmi. Davanti a Ramesh stava bollendo e schiumando un pentolone di chai che non faceva altro che ripetermi di berlo.
Il chai è un tè preparato con latte, zucchero, zenzero, cardamomo, cannella, inutili gesti teatrali e soprattutto chiasso, per il quale già dal mio primo viaggio in India ho sviluppato una dipendenza totale. Provo una certa vergogna quando, senza chiederlo, mi trovo una tazza fumante tra le mani, consegnatami con la totale certezza che la finirò in meno di un minuto. Credo sia la stessa frustrante sensazione che provi chi, entrando la mattina in un bar, si trovi un bianchino sul bancone senza nemmeno doverlo ordinare.

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Come si entra nell’hotel, lasiandosi alle spalle la polvere e la luce più intensa, ci si accorge che quel buio che sembrava un sipario dietro le spalle di Ramesh buio non è. C’è tutta una decadente armonia di muri scritti e scrostati, tavoli consumati e oggetti abbandonati che nessuno sembra notare. La gente normalmente si ferma vicino al fornello e all’interno ci si trova quasi sempre soli, protetti dal buio, come unici spettatori di un chiassoso mattino indiano. E chai dopo chai, seduto sempre nello stesso angolo, ho imparato a conoscere meglio gli equilibri per noi quasi impercettibili che regolano le loro esistenze, guadagnando grammo dopo grammo la loro fiducia.

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Laxmi è la più anziana, ha i fianchi larghi e le mani piccole, comanda Ramesh e gli altri della  famiglia come si comanda una ciurma in mezzo ad una tempesta. Si aggira ancheggiando e sbandando tra la gente come fosse davvero fra le onde, mentre sono solo le sue gambe che non la reggono più. Anche gli altri sembrano a bordo di una nave che non entra in porto da anni, tuttti con quella capacità tutta indiana di passare la vita in botteghe minuscole,  giorno e notte, come non si potesse mettere piede al di fuori, come non ci fosse nulla oltre la soglia.

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Come molte donne fanno, lascia credere a suo marito Parkash di avere in mano il potere e lui ne sembra convinto, ma appena si distrae, lei va a frugare nel cassetto dei soldi per controllare i resti che ha appena dato facendomi cenno di non dirgli nulla.
Parkash non sembra curarsene molto, anche perchè ultimamente non passa più molto tempo tra i fornelli, preferisce sedersi su una sedia e fare boccacce a suo nipote di pochi mesi che fra poco tempo avrà più denti di lui. Si chiama Khemil e da come guarda ciò che lo circonda, è palese che si tratti di un alieno atterrato per sbaglio tra le braccia di quell’uomo dalla voce ruvida e gli occhiali fumè. Con pazienza sopporta ogni tortura in attesa che la nave madre ripassi nei paraggi della Terra per riprenderlo a bordo.

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Alle volte Laxmi interrompe il suo dare ordini, si avvicina, sorride e mi benedice con le mani giunte o rivolte al cielo. Nonostante sembri un gesto d’amore incondizionato, temo possa essere un tentativo estremo di salvataggio della mia anima per qualche peccato tremedo che commetto senza nemmeno accorgermene. Non ci faccio troppo caso e accetto, perchè sono solo istanti tra il suo continuo ondeggiare tra la gente e borbottare ma bastano a farmi sentire parte di quel complicato insieme di vite.
Conosco solo una cosa più dolce delle sue brevi attenzioni. Il suo chai. Quando la vedo avvicinarsi al fornello il mio corpo inizia a produrre istantaneamente insulina temendo che il diabete possa lasciarmi esanime sul tavolo. Le sue “generose” manciate di zucchero suonano come pugni di ghiaia nell’acqua, ne lancia sempre tre, poi si ferma, fa per chiudere il barattolo, ci ripensa e ne lancia una quarta. Sempre.
Quando per la stanchezza non riesce più a ronzare tra la gente, si rifugia in un angolo a tagliare verdure per la giornata, di lei non rimane che la voce ma i suoi sguardi continuano ad aggirarsi pungenti come vespe.

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Guadagnarmi la loro fiducia è stato un lavoro costruito giorno per giorno e le poche foto che ho scattato sono solo quelle che ho pensato fossero necessarie, senza riprovare le inquadrature o insistere se qualcuno non avesse voluto. Di solito so essere molto più meschino e paziente. Quando non voglio perdere una foto e mi viene impedito di farla, metto l’autoscatto, appoggio la macchina fotografica e faccio vedere con le mani alzate che non sto facendo nulla. E in quanto a pazienza, quest’estate ho quasi finito un libro aspettando che un vecchio passasse su un ponte di corde. Con loro però non ho voluto esagerare e quando con un cenno mi facevano capire di non voler essere fotografati riponevo la macchina nello zaino. Ho fatto solo un’eccezione per la figlia di Laxmi, Kalavati, la mia preferita.
Kalavati ha ancora il sorriso di quando era bambina e i capelli che stanno diventando bianchi, sottile come un fiammifero è sospesa tra due tempi, sembra felice, anche se ogni tanto la sorprendo guardare lontano e mi chiedo cosa sogni. Di lei ho solo una foto, rubata alla sua timidezza, quando distratta dalla luce, per un’istante, si è dimenticata di me.

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Alla prossima

10 thoughts on “Indian breakfast tea

  1. …sembra veramente una bimba! Che bella che è!
    Però… mi hai fatto venire una voglia incredibile di farmi una bella tazzona di quel chai!!
    Ciau indianino!
    Tanti baci!!

  2. Quando vivevo a Singapore anche io mi ero affezionato a quella brodaglia. Solo che la’ per motivi igienici la preparavano con una sorta di latte semicondensato in scatola. Ma similmente, i chioschi del chai thea attiravano vecchi e perdigiorno di tutte le etnie (cinesi, indiani, malesi). Me compreso 😉

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